Italia invecchia fra molte scie ma nessuno sciame. Le «Considerazioni generali» del 57° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2023.
Ci si consola constatando che il nostro è il Paese delle mille meraviglie, se ammirato dall’alto delle lussuose terrazze cittadine, degli strapiombi sul mare, delle colline e delle cime più elevate.
Ignorando quanto sia invischiato in tutte le sue arretratezze, se praticato dal basso.
Molte scie, nessuno sciame
Accomunando promesse di inclusione, occasioni di benessere, investimenti in capitale umano o patrimoniale, il nostro Paese ha costruito in decenni il proprio meccanismo di vita sociale preferendo lo sciame allo schema, l’arrangiamento istintivo al disegno razionale.
Uno sciame che però oggi appare disperdersi, distaccando dietro di sé mille scie divergenti.
Quel meccanismo di promozione e mobilità sociale si è usurato.
Una direzione, pochi traguardi
Nelle tensioni e negli affanni di questi ultimi anni, la società italiana inizia a intravedere, con progressiva chiarezza, i contorni della difficile congiuntura e i possibili punti di arrivo dei cambiamenti in corso, ma elude attentamente stimoli e investimenti utili a tradurre l’intenzione in traiettorie concrete.
Il ripiegamento in piccole patrie e piccole rivendicazioni e la scarsità di traguardi condivisi mettono a basso regime, quasi a riposo, i motori delle grandi invarianti collettive.
La pandemia, la crisi energetica e ambientale, le guerre ai bordi dell’Europa, l’inflazione, i flussi migratori, l’affermarsi di modelli di sviluppo diversi da quello occidentale, l’aggravarsi dei rischi demografici e dei nuovi bisogni di tutela sociale hanno però messo definitivamente a nudo i bisogni di medio periodo del nostro Paese.
Nel dibattito collettivo ci sono state molte giornate di bonaccia, di calma piatta, di pericolosa rinuncia a guardare dentro e attraverso i grandi piani e i grandi annunci.
Tra vitalità disperse e un confronto pubblico giocato su emozioni di brevissima durata, la società italiana trascina i piedi.
Ci si consola constatando che il nostro è il Paese delle mille meraviglie, se ammirato dall’alto delle lussuose terrazze cittadine, degli strapiombi sul mare, delle colline e delle cime più elevate.
Ignorando quanto sia invischiato in tutte le sue arretratezze, se praticato dal basso.
La transizione digitale inizia a fare i conti con una platea via via più ampia e differenziata di fragilità e di esclusioni per scarsità di risorse, competenze, infrastrutture, reti.
L’accelerazione degli effetti della crisi ambientale mostra i ritardi e il bisogno insoddisfatto di politiche, strumenti, investimenti pubblici e privati per la messa in sicurezza del territorio e delle infrastrutture.
La transizione energetica ha superato la prima stazione di arrivo e appare evidente che ora serve un bilanciamento tra sicurezza degli approvvigionamenti, innovazione tecnologica, riduzione dell’impatto delle attività industriali, schiodando la coscienza collettiva ferma al caro-energia.
La transizione demografica, con l’invecchiamento della popolazione e la crisi della natalità, è la trasformazione più chiara che abbiamo sotto gli occhi e della quale sono più evidenti le dinamiche di medio periodo.
Ma le politiche per le famiglie, i giovani, la sicurezza collettiva, la fruizione di servizi digitali dell’amministrazione pubblica si riducono a poco più di un’applicazione da scaricare sullo smartphone, in genere di scarsa intelligenza e di modesto investimento.
La tutela dell’educazione universitaria e della sua funzione sociale si ferma alla promessa di nuovi alloggi per studenti, la ripresa di un minimo decoro urbano alla piantumazione di qualche albero, la cura dell’osteoporosi della dorsale appenninica al rifacimento di borghi abbandonati.
In questi mesi si è fatta strada la consapevolezza che è cambiata l’attribuzione di senso al lavoro da parte dei giovani, come espressione della vocazione e dello sviluppo della persona e delle comunità: un sostanziale rovesciamento rispetto al passato, che però non rimette in moto uno sciame, uno sforzo collettivo di sviluppo.
La gestione finanziaria del debito pubblico, in uno scenario interno e internazionale denso di incertezze e di tensioni, ha rimesso al centro della vita economica e sociale la funzione del risparmio di famiglie e imprese.
Ma i processi di accumulazione e di gestione del risparmio sfuggono alla logica di alimentare lo sviluppo del Paese o di sostenere la spesa pubblica.
Tutto concorre a comporre un disegno, per la verità ancora piuttosto confuso, di una società che, più che avviare un nuovo ciclo, sta sostituendo il modello di sviluppo costruito a partire dagli anni ’60, nel quale si rivendicava il lasciar fare, la copertura dei bisogni essenziali, il riconoscimento delle identità e dei diritti collettivi, con un modello nuovo in cui sia assicurato il lasciar essere, l’autonoma possibilità – specie per le giovani generazioni – di interpretare lavoro, investimenti, coesione sociale senza vincoli collettivi.
Rimane sullo sfondo il dubbio che, se ciascuno conquisterà la libertà di essere qualsiasi cosa, senza regole, senza vincoli, senza sciame, non sapremo fare, insieme, le cose che da soli non siamo in grado di fare e non sapremo essere, tutti insieme, ciò che da soli non siamo in grado di essere.