Confindustria: liberare Italia dalla burocrazia. Il Centro Studi afferma che non siamo in guerra, ma i danni economici fin qui provocati dalla crisi sono equivalenti a quelli di un conflitto e a essere colpite sono state le parti più vitali e preziose del sistema Italia: l’industria manifatturiera e le giovani generazioni. Quelle da cui dipende il futuro del Paese.
L’aumento e il livello dei debiti pubblici sono analoghi, in quasi tutte le economie avanzate, a quelli che si sono presentati al termine degli scontri bellici mondiali.
Una sorta di guerra c’è stata ed è tuttora in corso, ed è combattuta, una volta di più, dentro l’Europa e dentro l’Italia.
Come nei secoli passati, in cui le divisioni e gli interessi di parte prevalevano su tutto e tutti.
A scatenarla sono stati errori recenti e mali antichi. Gli errori recenti sono stati inanellati nella gestione dell’eurocrisi.
La priorità è ristabilire la fiducia. Soltanto la politica può riuscirci. Il rischio più grande dello scenario è quello di un nuovo fallimento della politica, qualora questa obbedisse a tempi e logiche proprie e non si dimostrasse all’altezza delle formidabili sfide presenti. Per le quali occorre prontezza nelle decisioni.
In ritardo appare soprattutto l’Europa, dove un salto di qualità è alla portata e invece spesso prevalgono egoismi nazionalistici>, si legge nella Premessa agli Scenari economici del CSC pubblicati nel dicembre 2008. Si tratta di errori compiuti dai singoli stati: per esempio, la falsificazione dei conti greci e il lungo immobilismo italiano. E nelle decisioni collegiali: per esempio, il precedente creato con la ristrutturazione del debito greco, il far contabilizzare dalle banche ai prezzi di mercato i titoli sovrani, come se gli stati europei potessero essere insolventi e, soprattutto, ostinarsi a condurre coralmente politiche di bilancio restrittive.
Le politiche improntate al solo rigore, invece di stabilizzare il ciclo, stanno facendo avvitare su se stessa l’intera economia europea. Ormai non c’è (quasi) più nessun economista che creda agli effetti espansivi non-keynesiani dei tagli ai bilanci pubblici attuati sincronicamente in più paesi fortemente integrati tra loro, come sono quelli dell’UE e in particolare dell’Eurozona.
Gli esiti dell’esperimento in atto nell’Area euro di diminuzione dei disavanzi pubblici in presenza di un’ampia capacità produttiva inutilizzata (pari in media al 2,6% del PIL nell’Eurozona) dimostrano la validità delle prescrizioni contenute in ogni manuale di politica economica. In depressione economica la restrizione di bilancio abbassa il PIL effettivo e, distruggendo base produttiva, quello potenziale, minando la sostenibilità dei conti pubblici nel lungo periodo
Perciò è indispensabile cambiare strategia, mantenendo la barra dritta sul risanamento con misure strutturali che agiscano nel tempo e che non impediscano di sostenere nell’immediato la domanda.
Per lo meno evitino di comprimerla ulteriormente rispetto a quanto già fanno le forze che agiscono in senso recessivo: lo sgonfiamento delle bolle immobiliari, la riduzione della leva dei sistemi bancari e l’aggiustamento dei bilanci familiari.
L’impegno assunto nel vertice quadrangolare di Roma di un piano di rilancio pari all’1% del PIL europeo va nella giusta direzione, perché riconosce implicitamente la necessità di mutare passo, anche se ha un che di déjà vu non del tutto rassicurante.
Occorrono, però, altre misure per fermare e invertire la disunione creditizia da tempo in atto e che sta provocando un violento credit crunch proprio nei paesi maggiormente impegnati nello sforzo di correzione dei conti pubblici.
Per questo è cruciale l’esito del Consiglio europeo del 28-29 giugno.
I mali antichi sono quelli che affliggono il Belpaese e sono dovuti all’assenza di politica lungimirante e all’incapacità di fare sistema; entrambe trovano la massima espressione nell’inefficienza della pubblica amministrazione (un tema su cui si concentra la seconda parte di questo rapporto).
A livello UE progressi di consapevolezza e di consenso politico si intravedono dietro le quinte.
Le proposte non mancano, ma non basterà più annunciarle per far riguadagnare al progetto dell’integrazione europea credibilità e, non meno importante per la tenuta sociale, popolarità.
Non basterà annunciarle perché servono celeri azioni concrete per estirpare gli embrioni di disgregazione monetaria che si sono già materializzati attraverso la segmentazione dei sistemi bancari e l’enorme dislivello dei tassi di interesse.
Segmentazione e dislivello agiscono inizialmente da potentissime centrifughe, ridistribuendo oneri, competitività e prospettive di sviluppo.
Ma poi funzionano da grimaldelli che scardinano l’Unione. Senza salvezza per alcuno.
Come prova il rapido peggioramento della fiducia e dell’attività produttiva nella wunderbar (portentosa, magnifica) industria manifatturiera tedesca. E non c’è da ricavarne alcuna Schadenfreude, cioè piacere provocato dalla sfortuna dell’altro.
In Germania hanno cominciato a guardare e a far guardare l’opinione pubblica dentro l’abisso della dissoluzione dell’euro e si sono spaventati: secondo uno studio del ministero delle Finanze nel solo primo anno seguente alla morte dell’euro il PIL tedesco crollerebbe di quasi il 10% e la disoccupazione raddoppierebbe.
Cifre la cui attendibilità è difficile da valutare perché non c’è modello econometrico che possa con fondatezza dar conto delle incalcolabili conseguenze economiche, sociali e geopolitiche della scomparsa della moneta unica.
Per inciso, il ritorno alla lira si tradurrebbe per gli italiani nella più colossale patrimoniale mai varata, sia per gli effetti diretti sul valore delle attività delle famiglie e del loro reddito sia perché davvero le ricchezze private, ovunque detenute (anche illecitamente), verrebbero inevitabilmente sottoposte a una radicale tosatura per ristabilire un po’ di ordine nel bilancio pubblico e nella giustizia sociale, di fronte al profondo impoverimento della maggioranza della popolazione.
Le misure adottabili sul piano europeo sono numerose. La riduzione dei tassi da parte della BCE, che il CSC incorpora nello scenario per tre quarti di punto, e i suoi più massicci acquisti di titoli di Stato per ridurre gli spread.
Oppure, visto che la BCE stessa non vuole più svolgere il ruolo di supplente della politica, l’acquisto di tali titoli potrebbe essere effettuato dal “fondo salva-stati” (mai nome fu così opportunisticamente e infedelmente scelto: salva-Europa sarebbe stato più bello e veritiero). Ancora, l’unione bancaria, con messa in comune dei rischi e della vigilanza, e l’emissione degli eurobond (in varie forme e per vari scopi).
Infine, ma non da ultimo, l’unione fiscale, inclusa una maggiore armonizzazione dei sistemi previdenziali, per giungere al traguardo più ambito e ambizioso: l’unione politica.
In tutte queste misure è esplicita la cessione di sovranità nazionale; una cessione che nei fatti già era stata accettata implicitamente attraverso la comunione delle monete.
Particolarmente importante e denso di conseguenze, non solo per l’immediata urgenza di rompere la spirale tra bilanci delle banche e debiti pubblici, è il superamento della concezione nazionalistica dei sistemi bancari (dettata ovviamente da logiche di controllo politico-partitico delle risorse).
L’unione bancaria significa, appunto, condividere sia la vigilanza, aprendo gli armadi e mostrando gli scheletri, sia i rischi per i contribuenti. Sono passaggi fondamentali della strada che conduce agli Stati Uniti d’Europa, ribadendo il principio costitutivo degli stessi Stati Uniti d’America: non c’è tassazione senza rappresentanza.
Un’importante cartina di tornasole della svolta europea sarebbe la concessione di più tempo alla Grecia per il risanamento dei conti pubblici. Dalla tragedia greca è partita la pessima eurogestione franco-tedesca dell’uscita dagli alti disavanzi pubblici e da essa non può non ripartire la strategia europea.
I greci meritano una dilazione temporale perché hanno fatto sforzi enormi nella diminuzione del deficit pubblico (il saldo primario è passato da -10,4% a -1,0% del PIL) e hanno pagato una sanzione inaudita in termini di perdita di benessere (-15,0% il reddito pro-capite dal 2009, quando è iniziata la cura, al 2012).
Ciò, ovviamente, non li esime dal mostrare con la condotta di aver appreso la lezione della disciplina nelle finanze pubbliche.
Come detto sopra, l’Eurozona tutta ha bisogno di una maggiore gradualità nell’aggiustamento degli squilibri, pena l’affossamento del progetto stesso dell’Unione europea, sul fronte politico e sociale non meno che su quello economico e finanziario.
Adesso e di nuovo spetta alla politica cambiare rotta finalmente.
Gli effetti maggiori e più rapidi, nel rinsaldare la fiducia e nel rimuovere l’incertezza e, quindi, nel rilanciare l’economia, si avrebbero se ci fosse un’esplicita ammissione degli errori commessi, condita dal riconoscimento delle cause degli stessi.
Ma sarebbe ingenuo pretendere tanto. Risulterebbe già un grande sollievo poter leggere il mea culpa tra le righe del cambio dell’approccio all’eurocrisi, l’inizio di una nuova fase di integrazione e rafforzamento dell’Unione.
In questa <grave ora>, per usare le parole di Giorgio VI, sovrano del Regno Unito, se gli europei rimarranno calmi e saldi e uniti, l’euro verrà salvato e con esso il destino dell’Europa, il benessere dei suoi cittadini e le sue istituzioni democratiche, scosse da venti populistici.
Ciò vale specialmente per l’Italia, che potrebbe vincere la sua storica sfida: diventare nazione, cioè un sistema anziché un insieme di forze e interessi. Passi enormi, impensabili fino a un anno fa, sono stati compiuti dal Paese con i vari decreti (Salva Italia, Cresci Italia, Semplifica Italia e i successivi interventi).
Altri sono in cantiere sulle questioni fondamentali della pubblica amministrazione e della giustizia. Inferiore alle attese e ai bisogni è risultata la nuova normativa sul mercato del lavoro, che contiene qualche avanzamento ma anche arretramenti e rischia di accrescere l’alea e le complicazioni giuslavoristiche.
L’opera delle riforme è comunque lontana dall’essere terminata. In molti campi occorre ancora intervenire.
La parte più difficile è quella dell’attuazione, che richiede coerenza nel tempo e nell’alternanza di maggioranze parlamentari ed esecutivi, oltre a pazienza certosina e grande determinazione.
Solo così sarà possibile rimuovere gli ostacoli ed evitare gli insabbiamenti di chi ha interesse particolare o addirittura personale a conservare lo status quo.
Il CSC, contrariamente all’opinione di molti analisti e allo scetticismo della maggioranza degli investitori, assegna ancora un’elevata probabilità al rapido rilancio dell’Unione monetaria ed esclude l’uscita di qualunque paese dall’Eurozona, evento che innescherebbe incontrollabili reazioni a catena di natura economica e geopolitica.
Su questa doppia ipotesi sono incardinati i nuovi Scenari economici. Inevitabilmente deteriorati rispetto a quelli disegnati lo scorso dicembre.
Il quadro descritto allora per l’Italia era fondato sulla rapida soluzione dell’eurocrisi che avrebbe consentito il rientro, seppur parziale, degli spread e messo in moto la ripresa già dai mesi estivi.
Era un’assunzione dichiaratamente ottimistica.
Le dinamiche si sono rivelate, come temuto, decisamente meno positive sia sul fronte della domanda interna e della produzione sia su quello della finanza e del credito.
Nelle attuali previsioni il CSC prende atto della peggiore realtà, con effetti netti su PIL, mercato del lavoro e conti pubblici. L’appuntamento con la ripresa viene posticipato di un semestre.